sabato 31 ottobre 2015

Dei ragazzi della scuola e dell'amore - ottava puntata

ancora con i ragazzi

OTTAVA PUNTATA

Cap. 5 Martina e Gianni 

Era da poco iniziato dicembre. Una domenica mattina alcuni amici, giunti all’ospedale a trovare Luigi, videro che stava meglio. Si stava riprendendo, anche se parlava ancora a fatica. L’ematoma che aveva interessato la testa stava regredendo. Non lo affaticarono e si risolsero a brevi saluti, ai baci e a strette di mano. Usciti dal reparto, Gianni confessò al nostro amico che con Martina le cose andavano male.

- Sì, è venuta da me qualche giorno fa dicendomi che tu facevi la corte ad una ragazza di prima C. Ho provato a smentire, Gianni, ma non mi ha creduto.

- Praticamente mi ha lasciato, Romo, e non ci sto dentro. La chiamo continuamente ma non risponde, si fa negare. M'ha detto che ha parlato con sua madre e che anche lei le ha consigliato di mollarmi. Ma che cavolo, non può farsi i fatti suoi quella! Tutto il giorno a far niente ma quando c’è da rompere le scatole è la prima. Romo … se hai consigli lo sai che ci tengo al tuo aiuto.

- Sì, ma cosa posso fare, non posso parlare io per te.

- No, devi solo darmi un'idea, uno spunto, qualcosa che la convinca che la amo e la faccia tornare da me.

- E ti sembra facile? cosa posso dirti?

- Romo, dai, aiutami. Lo scriverei a tutto il mondo che la voglio, io che le voglio bene, davvero!

- Lo scriveresti … hai avuto un’ideona! Scriviamolo sulla strada davanti a casa sua a caratteri cubitali, con la vernice, questa notte, io e te; scriviamo che la ami con lettere tanto enormi, così gigantesche, da divenire onde del mare agitato.

- La amo? Proprio così dobbiamo scrivere, Romo?

- La ami! proprio così, se vuoi convincerla devi esporti.

- Ma lo leggeranno tutti. Scriviamo che non so stare senza di lei, e che sta sbagliando tutto…

- E che la ami, hai paura a dirlo? … e che ti manca, se la vuoi rivedere!

E così fecero. Comprarono due rulli una tanica di bianco e si vestirono con abiti adatti. Erano pronti ad affrontare l’ennesima sfida per l'amore, quello eterno, quello inviolabile, quello che baciava il destino in fondo alle loro vite.

- Perché le ragazze queste cose non le fanno? - Si lamentò Romo con l'amico. - Solo noi siamo disposti a gesti ridicoli pur di farci notare.

- Forse perché non vogliono faticare come noi. O forse perché hanno altri argomenti per farsi notare... non lo so, insomma

- E stasera avrei dovuto ripassare letteratura per l’interrogazione di domani. - Disse sconsolato Romoaldo.

- Dai Romo tra amici. Poi quando avrai bisogno ...

E durante quelle elucubrazioni trasportavano a fatica la tanica e tutto l’occorrente, in precario equilibrio sul ciclomotore che ciondolava ubriaco. Dondolando ad ogni metro presero a discutere animatamente della frase da scrivere.

- Ti faccio la foto Gianni. - Disse ridendo.

- Per favore dopo quello che è successo con le campane no, eh!

Dopo un breve tratto in motorino arrivarono al viale Matteotti e si prepararono. Cominciarono dall’inizio con lettere che erano grandi quanto l’intera carreggiata, da un lato all’altro.

- Bisogna fare attenzione a scrivere correttamente, perché con lettere enormi e così lentamente è facile confondersi e sbagliare. - Disse Romoaldo, e poi aggiunse: - Per non scrivere il nome di Martina useremo il vezzeggiativo che le hai dato tu, Gianni.

- Il nomignolo, vuoi dire, tipo cara, pussy, gattina?

- Sì sì, proprio quello.

Quindi cominciò l’impresa. Gianni prese il rullo e tracciò la prima lettera. Per la seconda Romoaldo non fece in tempo a finirla che giunse una macchina.

- Cavolo se continuano a passare ci rovinano il lavoro. Disse con rabbia Romo.

- Sì, dobbiamo tirare i rulli così la vernice asciuga prima, - spiegò Gianni. - Ci metteremo più tempo ma è l’unico modo.

- Azz…

In un modo o nell’altro, e qualche volta interrotti, finirono dopo un’oretta abbondante. Tempo tutto sommato accettabile. Si erano impegnati, e ci avevano preso gusto. Forse troppo: poiché cominciarono a pensare cosa scrivere in altre vie, magari per prendere per i fondelli gli amici.

- Aspetta, prima di andare via rileggiamo il tutto.

- Sì, ammiriamo la nostra opera d’arte!

La scritta era lunga circa 60 metri, spropositatamente enorme: “Non posso stare senza di te, Ciccina. Non spezzarmi il cuore. Siamo nati l’uno per l’altra. Mi manchi, TI AMO, G.”.

Calcolarono il tutto in modo che risultasse la parola “cuore” proprio davanti a casa di Martina. Poi Gianni, preso un pennello, le volle disegnare un cuore sul muro di cinta. Ci pensò ancora e scrisse un grosso “TI AMO” sulla via di fronte alla sua villa.

Poi lasciò un cuore su ogni albero lì vicino. Insomma l’amico dovette fermarlo allorché stava iniziando, con le suole imbevute nella vernice, a tracciare le orme dei passi davanti a casa di Martina con l’intenzione di arrivare fino alla propria casa.

Faceva freddo ormai, quel freddo che ti entra nelle ossa, ed era tardi. Ma la missione era compiuta, comunque. Nessuno li aveva visti e agli altri non lo avevano detto: e tutto era andato liscio. Gianni mandò un SMS a Martina dicendole che la mattina seguente avrebbe avuto una piacevole sorpresa guardando la strada di casa sua.

Nulla da dire su quell'idea: tali cose colpiscono le ragazze. Colpisce l’impegno, la fantasia, la forza d’animo. La volontà dei ragazzi di metterle al centro delle loro attenzioni. Le parole erano forse un pò scontate, ma di sicuro effetto.

E lei alla sola vista della loro opera d'arte impazzì per Gianni, cotanto amore le aveva toccato il cuore.

Lo chiamò prima di andare a scuola. Lo accolse a braccia aperte all’entrata, e nell’intervallo corse nel corridoio per vederlo e stare con lui. Insomma era cotta a puntino. Ne parlarono le sue amiche per giorni. Ne fu fatta una sorta di reportage fotografico da molti ragazzi della scuola. Gianni era un bel ragazzo e per di più brillante: erano la coppia più invidiata a scuola in quel momento.

Passò qualche giorno e dicembre s'accorciò. C'era un freddo pazzesco e gli amici si chiudevano per qualche ora nel bar della piazzetta fino a che ognuno andava per la propria strada.

Romoaldo aveva iniziato a frequentare assiduamente l’oratorio. Don Vittorio lo teneva d’occhio, e quando non c’era lui lo faceva controllare praticamente a vista da alcuni giovani di cui si fidava. Era pur sempre uno degli autori della scampanata. Pian piano i suoi convincimenti ebbero la conferma: era un tipo un po' nelle nuvole ma aveva un animo nobile e sensibile. E infine quel ragazzino gli piacque, così lo invitò a dare una mano al teatro della parrocchia in maniera assidua, cominciando con montaggio e smontaggio. Don Vittorio aveva chiesto ad alcuni dei Confratelli, genitori che sbrigavano volentieri le questioni pratiche delle attività parrocchiali, di prendere sotto le loro ali protettive il fanciullo, e di farlo lavorare.

Così Paolo, Claudio, Emanuele, Giovanni, Tonino e altri divennero pian piano suoi amici. Avevano in media 30-35 anni più di lui, ma divennero affiatati compagni di lavoro nei preparativi delle attrezzature del palco per gli spettacoli.

Un bel giorno, per la precisione un sabato pomeriggio di metà dicembre, al baretto si presentò anche Luigi. Ci fu festa ed emozione tra gli amici. Era finalmente uscito dall’ospedale. Tutti si strinsero intorno a lui.

Dapprima gli chiesero le condizioni di salute, poi quando sarebbe tornato sui banchi di scuola. Quindi fu il turno di far vedere le cicatrici dell’incidente e di spiegare una per una come se le fosse procurate. Insomma erano davvero entusiasti di riabbracciare l’amico ritornato.

- Offro un giro di birra per Luigi. - Disse Gianni.

- E Isabella? L’hai più rivista, Luigi? - Chiese Mara.

- Sì, sì. Mi è venuta a trovare spesso, è stata carinissima. Dovrebbe venire qui anche lei.

- No, io no la birra, una coca cola. - Disse Riccardo, che tutto sommato aveva salutato Luigi ma se ne stava un po' in disparte: Luigi lo aveva notato.

- Non bevi una birretta con me come ai vecchi tempi, Ricky?

- Cosa? No, io no.

- Dai ci tengo. Come ai vecchi tempi Ricky. - E gli diede una pacca sulla spalla.

A questa manifestazione di amicizia ci fu silenzio. Era importante, cementava il gruppo e nessuno voleva perdersela. I due si guardarono un attimo negli occhi. Poi Riccardo confessò:

- È stata colpa mia Luigi, e tu ancora mi parli?

- Colpa di cosa?

- Non te lo ricordi? La statale, io che ti incitavo a correre?

- E allora? Colpa tua perché?

- Per colpa mia sei caduto e quasi ti ammazzavi!

- Ma cosa dici. E poi non ricordo granché. Io so che tu mi hai aiutato, no?

- Non ricordi che avevamo bevuto tutto il pomeriggio? Io avevo bevuto di meno però; tu t'eri sbronzato subito e io facevo finta di bere ancora. Eri piegato!

- E allora? Quante volte l’ho fatto io, o un altro, non si era obbligati a bere.

. Ma mi ero reso conto che guidare per te era pericoloso, sbandavi, ti alzavi in piedi, chiudevi gli occhi e ridevi come un matto, ma io non ho fatto nulla per fermarti, volevo solo divertirmi, ero euforico.

Riccardo guardò fisso nel vuoto e cominciarono a lacrimargli gli occhi. Nessuno parlava. Luigi mise il bicchiere sul tavolo. Prese il telefonino dalla tasca e cominciò a toccare i tasti quasi come per distrarsi, ma stava pensando alle parole udite.

- Scusami Luigi. Sono un bastardo, ma non volevo che ti succedesse questo.

Poi Riccardo si alzò e andò verso l’uscita, fermandosi alla porta. Non guardò indietro, si mise il cappello, prese il casco e le chiavi del motorino e uscì.

Gli amici rimasero senza parole, impietriti. Luigi l'aveva visto uscire, senza seguirlo con lo sguardo. Poi mise il telefono sul tavolo, si alzò un pò a fatica e guardando Riccardo gridò:

- Ricky! … Ricky … aspetta. E andò verso di lui.

- Dimmi.

- Tu non volevi farmi del male, secondo me eri storto di birra anche tu, almeno un pò. Sei il mio migliore amico e ora bevi con me altrimenti mi offendo.

Sorrise Riccardo.

- Ma come, io mi sono comportato da idiota e tu sei ancora mio amico?

- Sono fatto così. - Disse scherzando.

- Sei fatto male, Luigi, ma sei un grande. Sei un amico.

- Allora, bevi?

- Sì, ma non la birra, credimi non ho più il coraggio di bere dopo averti visto per terra privo di sensi. Ho avuto ... paura che fossi morto. Sono morto anche io con te su quella strada.

- C’era un angelo con me, Ricky, un pò bevuto, ma c’era … mi hanno raccontato tutto, sai.

Intanto i ragazzi uscirono pian piano per raggiungere i due amici e tirarono un sospiro di sollievo vedendoli insieme. Era un freddo pomeriggio quello alle porte dell’inverno. Scendeva un vento gelido, al sapore di neve, portava le montagne, e l’aria, quasi divertita, correva giù fino a noi, in pianura, veloce foriera di fiocchi imbiancati.

sabato 24 ottobre 2015

Dei ragazzi della scuola e dell'amore - settima puntata

seguiamo ancora i nostri ragazzi


SETTIMA PUNTATA

Venne l’ora prima della cena. Il padre di Romoaldo tornò a casa dopo il lavoro, salutò tutti e il nostro amico lo salutò con educazione, dopodiché si chiuse in un mutismo colpevole, di quei silenzi che soffocano l’anima. Andò nel suo letto e fece finta di studiare, mentre dentro moriva di vergogna. La madre lo chiamò per cena e, quando vide che si era addormentato, lo svegliò dolcemente, come solo una madre sa fare.

La cena passò velocemente e Romoaldo fece per andare a dormire di nuovo quando il padre lo chiamò. Era quasi l’ora che andasse in parrocchia. Romoaldo capì che voleva parlargli di questo e lo affrontò con la speranza che qualcosa si chiarisse.

Il padre si chiuse in camera con lui. Lo guardò per qualche istante. Poi tese la mano verso di lui.

- L’hai fatta grossa Aldo - così abbreviava il nome del figlio - ci hai deluso e noi ci siamo arrabbiati molto con te. E’ giusto che tu sia punito.

In quel momento entrò la madre. Non disse niente, ascoltò il marito.

- Ma io non devo desiderare di picchiare mio figlio, non devo arrivare a quel punto … ieri per qualche istante avrei voluto … ho sbagliato … errore mio, non deve capitarmi più … ma tu limitati Aldo, non so come dirtelo, non portarmi a desiderare cose del genere, che non mi fanno onore.

Quindi lo abbracciò forte. Gli carezzò la testa e i capelli. Romoaldo cominciò a singhiozzare tenendosi stretto a suo padre. Scoppiò in un pianto così profondo e liberatorio che il padre non fece nulla, ascoltò le parole che gli schiusero il cuore, e che chiedevano scusa. La madre disse soltanto:

- Stiamo lavorando sodo per voi figli. Sappiamo che non ci deluderete. Vediamo che ti impegni. Per cui ascolta tuo padre, ascoltaci, e ti andrà bene nella vita, figlio mio.

Finì così. Romoaldo questa volta capì cosa i genitori provavano per lui. Ne ebbe la conferma. Ora era rinfrancato e si propose di non seguire mai più gli amici in faccende contorte.

In canonica il Prevosto tardò ad arrivare e i genitori dei ragazzi cominciarono a spazientirsi. Con loro c’era solo il sacrestano che era rimasto per accoglierli e non li degnò di uno sguardo. Continuò a sbrigare le sue faccende, quasi come se non ci fossero.

Cominciarono a guardarsi intorno. Nessuno di loro si conosceva se non di vista. Ognuno pensava, sperava, che il proprio figlio fosse stato trascinato nella bravata dagli altri amici, anzi ne erano convinti. Non si rivolsero la parola l’un l’altro come per mantenere le distanze dalle famiglie di chi coinvolgeva il proprio figlio in guai seri.

Arrivò il Prevosto. Disse poche parole, con calma, come si addice ad un prelato:

- Signori buona sera. Scusate il ritardo.

E continuò dicendo cosa era successo in occasione della scampanata. La prima domanda che fece uno dei genitori fu quella che mandò su tutte le furie il sacerdote:

- Come fa a dire che è stato mio figlio a fare queste cose?

Maledizione, pensò in un attimo il prelato, non si preoccupano dei ragazzi, di come crescono, del loro futuro, ma della loro reputazione di genitori. Ma il prete si controllò in un momento e la rabbia scemò. Da un lato era comprensibile che chiedessero questo, forse volevano accertare la verità e, d’altro canto, anche accertare i fatti era forse una sorta di cura per i propri figli.

- C’è un filmato - rispose Don Vittorio seccato - che qualcuno ha caricato in internet, signori … se pensate che non siano stati i vostri figli lo consegnerò ai carabinieri con contestuale denuncia contro ignoti, così sapranno dirci loro chi sono i responsabili. Che ne dite?

La risposta venne d’istinto dagli adulti.

- No, ci scusi, siamo tesi anche noi, Don. Ha fatto bene a chiamarci qui e a metterci al corrente. Anche se, penso, i nostri ragazzi, tutti spero, ci hanno già detto quanto è successo e sono stati messi in punizione ... comunque … ci suggerisca qualche cosa lei, ci dia qualche consiglio per i nostri ragazzi.

Queste parole addolcirono gli animi. Il prete precisò che era sua convinzione che i loro figli non fossero cattivi ragazzi, ma che c’era il serio pericolo che lo diventassero. Avevano la “pazzia dei giovani”, secondo lui, e loro dovevano aiutarli; magari con una punizione severa affinché comprendessero quali fossero i loro limiti, ma non con rabbia, spiegò, mai con rabbia. E così fu. Ad ognuno la propria punizione, con la benedizione del prete.

Don Vittorio era persona schietta e decisa. Il più delle volte, se riteneva che fosse il caso, dopo una parentesi diplomatica, diceva diritto in faccia quello che pensava. Qualcuno forse lo detestava per il suo modo di essere, ma, per i suoi ragazzi, per tutti i bambini, si sarebbe fatto in quattro. Rivelava per essi una sensibilità straordinaria.

Passarono parecchi giorni prima che gli amici potessero riunirsi di nuovo nella piazzetta.

Arrivò novembre e qualche pioggia. Era da un pò che Gianni insisteva per avere qualche spunto poetico da Romoaldo per una nuova ragazza.

- Ma non ti vedi più con Martina?

- Sì, non ti preoccupare, voglio farla solo ingelosire.

- Mo' ci credo Gianni, secondo te?

Romoaldo tirò a lungo fino a che Gianni se la prese a male. Fu costretto praticamente a scrivere al momento, e lo detestava quando faceva così.

Martina passava molte ore in palestra a fare esercizi di ritmica e alcuni sabati era impegnata nelle gare competitive, dove non raramente vinceva. Era molto dotata e si impegnava tenacemente. Era tra le prime ed arrivare in palestra e non trascurava di perfezionare ogni movimento, ogni esercizio. Era la leader del gruppo, quasi un modello di femminilità e gusto. Non era particolarmente vanitosa, forse perché non ne aveva bisogno, anzi spesso si immedesimava nelle amiche e se poteva le aiutava quando avevano un problema. Le aiutava, ma come farebbe una ragazza che è conscia delle proprie potenzialità e che potrebbe stare sul piedistallo ogni quando vorrebbe; in qualsiasi momento.

Un sabato pomeriggio Martina suonò il campanello della casa di Romoaldo. Rispose proprio lui e rimase sorpreso.

- Scendi per favore Romo!?

Ci mise un secondo. Nel frattempo pensò fosse successo qualcosa agli amici. Il tono di Martina era preoccupante. Ma no, - pensò, - se no mi avrebbero chiamato al telefonino.

- Ciao Martina, dimmi, è successo qualcosa?

- Ciao, ho bisogno del tuo aiuto … con Gianni … devi darmi una mano.

- Che è successo a Gianni?

- Io ho bisogno di aiuto, Romo … non lui.

Non aveva capito al volo, la guardò come si guarda un film muto, cercando di scoprire dalle espressioni quello che ancora non si era compreso dalle parole.

- Dimmi … sono tuo amico … sono tutto orecchi.

- Ecco, sei mio amico … ma Gianni è un deficiente! Ti ha chiesto di aiutarlo negli ultimi giorni, vero? - Romoaldo sgranò gli occhi mentre lei finiva di parlare. - Tipo che ha adocchiato una ragazza e voleva la tua complicità per conoscerla? Vero?

- No ... cioè, mi detto che voleva farti ingelosire e mi ha confidato che ...

Romoaldo ci era cascato! Le ragazze ci sanno fare con le parole, soprattutto quando usano un particolare tono della voce, a cui in genere i ragazzi sono sensibili, e che la natura ha dotato di raffinata dolcezza. I ragazzi, il più delle volte, non sanno reagire a tale fascino.

- Lo sapevo, lo sapevo … è un bastardo, lo ammazzo, anzi la ammazzo, anzi ammazzo tutti e due. Devi aiutarmi, lo dobbiamo seguire, devo scoprire se è vero. Dammi una mano. Gliele voglio dire in faccia a quel disgraziato che non è altro.

Romo già si vedeva la faccia di Gianni infuriata, la reazione verso Martina, e soprattutto verso di lui. L’istinto di sopravvivenza prevalse e pensò alle parole da dire.

- Ascolta, io ti voglio aiutare, ma se per caso ci scopre Gianni, a te lo rinfaccerà per sempre, a me invece la faccia la spacca. Lasciamo stare, affrontalo e diglielo. Se hai dei dubbi è la cosa migliore.

- No, voglio esserne sicura prima, poi lo mollo quel defi. Per sempre! E poi le mie amiche me lo hanno già detto che gira intorno a una di prima C.

- Allora se lo sai, vai e diglielo.

- Lo voglio beccare sul fatto. Non voglio che ci siano dubbi se devo mollarlo.

- E se ti scopre lui e si accorge che lo pedinavi, prima che tu lo sorprendi? Che figura ci fai?

- Romo non difendere il tuo amico … lo so che ci tieni. Ma se tieni anche a me come tieni a lui, aiutami.

- Non lo difendo, se lo ha fatto è un pistola! Ma io cosa ci posso fare?

Martina si calmò.

- Lo so che all’inizio sei stato tu a ispirargli alcune delle cose che mi hanno fatto innamorare, Romo. Me lo ha confessato lui, serenamente. Mi ha detto che tu sapevi trovare le parole che lui sentiva dentro, anche perché lui non è tipo di parole, ecco tutto. Per cui so bene chi è Gianni. Ma io voglio essere sicura del suo amore, voglio sapere se è vero che sente quelle cose per me. Come hai aiutato lui ora aiuta me, Romo!

Romo si rifiutò. Forse non solo per paura; aveva rispetto di Gianni.

La determinazione di non partecipare ad un gesto basso, dettato solo dalla rabbia, lo persuase a dire di no. Capiva lo stato d’animo di Martina, ma rifiutò fino a che lei se ne andò senza salutarlo, voltando le spalle seccamente. Fu umiliante.

Più tardi Romo andò in piazzetta. C’erano tutti. Mancava soltanto Sergio che dalla litigata per la scampanata non era più venuto. Anche in classe teneva le distanze con loro. Romoaldo era giù di tono, molto giù. Non si confidò con gli amici, erano su di giri per qualche birra e avrebbero buttato tutto sul ridere.

- Dai fatti una birretta - disse per risollevarlo Riccardo - Io e Luigi siamo alla terza … mi pare … tu vienici dietro.

Erano partiti. L’alcool cominciava a portarli via con sé, tra fumi ovattati senza colore. Romoaldo ordinò una birra, ma si limitò a quella. Aveva tutte le intenzioni di mantenere la parola data ai genitori. Gianni giocherellava col telefonino quando gli arrivò uno squillo e si allontanò di fretta, ma gli altri fecero in tempo a sentire la voce di una ragazza. Finita la breve conversazione prese lo scooter e se ne andò senza salutare. Poco dopo cominciò a piovere e i ragazzi lasciarono la piazzetta. Riccardo e Luigi non erano in grado di guidare i ciclomotori, ma nessuno degli amici disse nulla. Passò qualche ora quando a Romoaldo arrivò una telefonata da Gianni. Non aveva il solito tono, quasi piangeva: Luigi aveva avuto un incidente col motorino, era all’ospedale di Legnano; era grave. Tutti gli amici stavano andando lì e non sapevano in che condizioni fosse.

Romoaldo si fece portare dal padre al pronto soccorso. Trovò silenzio, una sala d’attesa senza sospiri. Alcuni sembravano guardare persi nell’aria, tra pensieri che nessuno osava narrare. Mara andò verso di lui, lo accolse con un tiepido sorriso e il volto pieno di lacrime che cercò di asciugare prima di dargli un bacio. Pian piano gli amici lo misero al corrente dei fatti. Luigi aveva perso il controllo del veicolo durante una corsa forsennata lungo la statale del Sempione, ed era caduto improvvisamente andando a finire nella carreggiata opposta. Un veicolo che sopraggiungeva era andato fuori strada per evitarlo e il conducente era anch’egli ricoverato. Fu la prima volta che quei ragazzi videro il dolore in faccia, reale, freddo e meschino, toccare uno della loro età. La madre di Luigi era pallida per il pianto che le smorzava la gola; ancora si vedeva la sofferenza nei suoi occhi quando, senza pensare ad altro, guardava con un rapido movimento degli occhi i ragazzi accorsi. Pareva respirare a fatica tenendosi stretta al marito. Luigi era ancora sotto i ferri e i medici non dicevano nulla. Ad ogni camice verde che passava tutti facevano drappello per sapere qualcosa, ma la risposta era ormai un rituale invito alla pazienza e alla speranza.

Passò qualche minuto e arrivarono gli agenti della polizia locale per sincerarsi delle condizioni del ragazzo e per parlare con i genitori. Ovunque era dolore, ogni attimo, ogni respiro, ogni sguardo.

Riccardo era con Luigi quando ebbe l’incidente. D’istinto aveva messo il suo scooter di traverso sulla carreggiata per riparare l’amico, con le luci accese, in modo che i conducenti degli altri veicoli non lo investissero. I poliziotti ascoltarono anche lui. Era molto spaventato, ma aveva mantenuto il sangue freddo in quella drammatica circostanza.

Finirono il lavoro in fretta, fu come una semplice pratica che passa sopra una scrivania. Uno dei due poliziotti neanche era sceso dal veicolo, dava ordini al collega che scriveva il rapporto e telefonava continuamente, ridendo di chissà quale cosa.

Il tempo passava e pian piano gli amici tornarono a casa, tranne Riccardo; volle stare con l’amico. Luigi uscì dalla sala operatoria intorno alle 22. Non era in pericolo di vita ma c’erano state complicazioni. I medici controllarono ogni ora le sue condizioni, per tutta la notte, tranquillizzando la madre.

Il mattino seguente, alle 10 della domenica, più o meno tutti gli amici giunsero all’ospedale. C’era anche Sergio. Romoaldo lo aveva avvisato, e non era stato l’unico. Luigi dormiva ancora. Era sfinito ed era sotto l’effetto dei sedativi. Il viso era tumefatto e respirava a fatica. Aveva grossi lividi e estese abrasioni sul corpo, almeno per quello che si poteva vedere. La madre non gli lasciava la mano un solo istante, seduta di fianco, con la notte addosso e il pianto che ormai non aveva più la forza di uscire. Continuava a carezzarlo e a parlargli sottovoce, come se non volesse svegliarlo. Il padre stette tutto il tempo senza parole, era il loro unico figlio. I ragazzi si tenevano a distanza, quasi per rispetto. Parlavano sottovoce. La madre fece loro un cenno di saluto e tornò a guardare il figlio. Non si era mai allontanata da lui, ma quando vide arrivare Riccardo, che era venuto poco dopo gli altri, si alzò. Lasciò il figlio e lo abbracciò forte. Tra le lacrime, che le tornarono prepotenti, ringraziò l’amico di suo figlio, era convinta che gli avesse salvato la vita facendogli scudo nel buio della strada. Gli amici allora si strinsero intorno a Luigi e ai suoi genitori. Ci furono lacrime su tutti i volti, incoraggiamenti e sorrisi: il dolore pareva passato per un istante, o almeno nascosto nel fondo dell’io, come se fosse tornato nel buio che sta dietro ogni cuore.

Per tutta la settimana a scuola l’argomento degli amici fu Luigi, le visite all’ospedale e, perché no, anche il lavoro sui libri. La frase che risuonava maggiormente tra le classi era il dubbio che nella vita non servissero tutte quelle nozioni astratte sulla storia, le lingue morte e le opere passate, che richiedevano disumani sforzi per apprenderle.

I ragazzi vedevano assottigliarsi le ore di luce e, in prospettiva, avvicinarsi l’inverno. Tra gli amici c’era Sergio, che ormai era tornato a frequentare il gruppo. Non ci furono grandi chiarimenti tra lui e Gianni. Cominciarono semplicemente a parlare delle cose di ogni giorno, e si accettarono come sanno fare due amici; sapendo che, in tutta onestà, la colpa non era tutta dell’altro. Di giorno in giorno giungevano notizie che Luigi stava migliorando pian piano e si diffuse un certo ottimismo. 


Arrivò sabato sera. Romoaldo assisteva in oratorio a una rappresentazione teatrale dei giovani parrocchiani. Tra loro c’era Mara. Impersonava la ragazza di Cirifischio in “State buoni se potete” e lui ne andava fiero. Lei indossava con leggerezza gli abiti cuciti da mani non troppo esperte, ma di fine tessuto, quasi fosse un lembo di cielo adagiato sulla soffice pelle olivastra. Osservava ogni movimento, pesava ogni parola, ogni cadenza proferita dalla ragazza che amava. Lei assunse movenze che pareva sgorgassero dalle pagine di Proust. La stessa raffinata atmosfera di profondo senso estetico. Da sola riempiva il palcoscenico, recitava con la voce, con lo sguardo e coi gesti. Riusciva a rendere la purezza del personaggio sebbene si trattasse di una reietta della società d’allora. Non era solo un’attrice: era davvero a Roma nel ‘500.

Romoaldo rimase incantato dalla capacità di organizzare uno spettacolo quasi dal nulla. Dalla sola volontà di portare il messaggio del genuino cristianesimo, quello che tutti sanno che potrebbe esistere anche nel proprio cuore. Il suo animo poetico ne fu colpito. Decise di ascoltare Mara e di cominciare a frequentare l’oratorio della cittadina.

Finita la recita attese con impazienza che lei uscisse dai camerini. Anche se alcune locuzioni che sentì dagli addetti ai lavori frantumarono il magico mondo creato sul palco, rimase nei suoi occhi l’immagine di quanto di bello può essere fatto dall’uomo. E così, vedutala, l'abbracciò tra un delicato sospiro ed un tenero bacio sul viso. La casa di Mara non era lontana e, invece di farsi accompagnare dai genitori che l'avevano attesa, preferì passeggiare con lui. Ci fu un lungo silenzio tra i due. Sentivano soltanto il tocco della mano, palmo a palmo, e l’aria quasi fredda che incontravano di quando in quando sul viso. Il silenzio accompagnava i loro pensieri e le poche parole fino ad allora dette.

- Tu credi in Dio? Intendo dire veramente. - Chiese Mara.

- Io sento che qualcosa esiste, qualcuno sopra all’uomo …

- Sei felice? - Chiese ancora interrompendolo.

- Qualche volta. - Rispose.

- Come qualche volta? O sei felice o non lo sei.

- Io penso che la felicità ognuno debba costruirla da sé. Ognuno di noi suppongo abbia la capacità di essere felice; se qualche volta non lo sei, dipende da te, dalle tue scelte. Oppure dalla ostilità degli altri … se non sei felice, io penso, devi fare qualcosa per esserlo, se solo ti è possibile.

- Ma è troppo semplice così. È riduttivo.

- Sarà pure semplice come dici, ma se vuoi essere felice devi fare tu qualcosa. A volte il fare è accontentarsi. Altre volte devi darti da fare davvero. Leonardo sosteneva che il Creatore ha dato ogni bene all’uomo al prezzo dello sforzo. Se credo in Dio? Sì, credo in Dio, per il solo fatto che abbiamo la possibilità di essere felici. Quindi sì, ci deve essere Dio.

Lei si fermò e lo abbracciò. Si tenne stretta a lui fino a che cominciò a sentire il calore del suo corpo.

- Sto bene così. - Gli disse.

- Non hai freddo ora.

- Sto bene con te, Romo.

- Romoaldo, dillo tutto il mio nome, tu lo rendi bello.

- No, è più bello Romo.

- Ma tu dillo comunque. Tu rendi piacevole ogni cosa. Il suono della tua voce tramuta ogni sillaba in un canto.

- Tu mi vedi così - lo interruppe - Mi vuoi bene e allora mi idealizzi.

- Non so se sia vero quello che dici. Ma se il cuor mio sente la dolcezza quando le tue labbra proferiscono parola, allora m'inganna, ove non fosse vero. Oh ingannami ancora cuore mio villano, come la luna inganna gli occhi miei vestendoti ora, davanti a me, della seta che colora il cielo, e la luce sua senza calore scaldi il mio pensiero come solo l’amore sa scaldare. Qual poca cosa sono se solo l’inganno sa parlarmi di te, amore mio.

- Sono io il tuo amore allora? - Chiese lei baciandolo con leggero tocco di labbra sulle sue.

- Dimmelo tu, se il mio cuore m'inganna allora parli il tuo che sa trovare le parole e suggerirle al mio.

- Allora l’amore tuo è un inganno, un artificio del tuo cuore? - chiese scherzando.

La carezzò in viso. Sospirò appena e disse:

- Oh, non essere severa col mio cuore. Se egli sbaglia quando ti vedo, la colpa è mia che gli occhi non chiudo al tuo splendore, e lui, attonito, non sa qual sia realtà o incanto.

Sorrise, sicuramente compiaciuta, stordita dalle parole che parevano dettate dall'istinto, nell’attimo esatto in cui venivano proferite. Mara aveva capelli castani e occhi di identico colore. La pelle aveva un lieve colorito bruno, il naso e la bocca, gentili. Era nel complesso di bell’aspetto ed era dotata di una particolare grazia nei gesti e nella parola.

Quella notte a lei parve ferma, immobile, in attesa del palpito d’ali su cui ogni pensiero di soffice suono all’anima parla.

- Hai freddo? - Ruppe il silenzio Romoaldo.

- Sì, ancora.

Mentre si abbracciavano si accese la luce di una finestra della casa di Mara. Insomma era ora di rientrare. I due si diedero ancora un bacio, un ultimo bacio gentile, che divenne pian piano, tra loro, una dolce passione, che sa rendere tenera e piena una fredda sera d’autunno.

- Ciao Leonetta, allora. - Sorrise.

- Ciao … Romoaldo. - E gli strinse un’ultima volta la mano per salutarlo e andò a casa.

sabato 17 ottobre 2015

Dei ragazzi della scuola e dell'amore - sesta puntata

ancora in compagnia dei ragazzi

SESTA PUNTATA

                           Cap. 4 La resa dei conti

La mattina successiva tutti in classe. I prof già da qualche giorno li avevano messi a lavorare e loro, malvolentieri, cercavano di stare al passo con gli studi. Tra tutti, Romoaldo era quello più disposto a “sudare” sui libri, ne provava una sorta di piacere; per lui ogni concetto nuovo, ogni approfondimento, era una scoperta, un’avventura, quasi una conquista.

All’intervallo Mara chiese a Romoaldo se quella domenica era disposto ad andare con lei e le amiche dell’oratorio e in chiesa.

- Va bene, ci verrò. - Lo disse, ma malvolentieri. Non era abituato, non la sentiva una cosa sua. E l’espressione del viso lo tradì.

- Dai provaci Romo, ci tengo. Poi vedrai che ti piacerà davvero. - Disse cambiando tono. Il sorriso e l’interesse che aveva per lui lo indussero a ripensarci.

- Ma sai io la domenica mattina studio un po', poi esco con gli amici a fare un giro, verso mezzogiorno.

I genitori di Romo non frequentavano la chiesa, erano troppo indaffarati a sbarcare il lunario. La madre andava a fare le pulizie un paio d’ore in un ufficio la domenica mattina. Il padre si godeva l’unica vera giornata di riposo e, per aiutare in casa, preparava il pranzo. In effetti entrambi dicevano ai figli di andare in chiesa, lo ripetevano parecchie volte, ma mai nessuno lo fece, finché si stancarono di ripeterlo. Insomma Romoaldo non era proprio dell’idea.

- A che ora ci vediamo Mara?

- Alle 9,45 in piazza. La funzione inizia alle 10, ma si va un momento prima per sistemare un pò. Ok?

Suonò la campanella e i ragazzi andarono nelle proprie aule. Il pomeriggio di sabato alcuni si trovarono in piazzetta. Non avevano i ciclomotori e non potevano muoversi troppo. Cominciavano ad annoiarsi. Non si sa come spuntò fuori un pallone. Qualche passaggio, dei tiri e si finì a giocare una partitella. Le ragazze non c’erano. Martina era a ritmica, ad una delle sue gare in trasferta. Mara era all’oratorio e le altre chissà dove. Terminata la partita Diego si avvicinò a Romo.

- Sai quelle poesie che scrivi per le ragazze? - Disse asciugandosi il sudore della fronte con la maglietta, - quelle d’amore che mi hai dato a scuola?

- Sì, più che dato io le hai volute tu, e poi Giovanna ti ha beccato che nemmeno le sapevi. - Rispose Romoaldo.

- Ho conosciuto una ragazza l’altro giorno, mi piace, e stasera devo andare da lei, a casa sua, per un ripasso di storia … insomma se hai una poesia magari gliela regalo, sai com’è.

- Magari … ma tutti da me venite? Ne trovi quante ne vuoi sui libri di letteratura.

- Lo so, ma le tue sono originali, mi serve, dai.

- La verità e che non avete voglia neanche di cercarvele … si … passa da me prima di andare da lei, te ne do una, già su pergamena, così farai anche bella figura … ma almeno leggila stavolta.

- Sei un’amico Romo, chiedimi qualunque cosa.

Smisero di giocare sudati e contenti e andarono al baretto.

- Chi si fa una birretta, raga?

Romoaldo un pò sconsolato confidò agli amici che l’indomani mattina sarebbe dovuto andare in chiesa con Mara.

- Ci tiene, ma proprio non mi va, non conosco nessuno, che ci vado a fare in chiesa?

- Anche io devo andarci, se no i miei mi fanno una menata. - Disse Diego. - Troviamoci lì alle 10 così poi ci facciamo l’aperitivo senza che ci vedono i matusa.

I genitori di Diego lo spingevano a frequentare la chiesa, e il più delle volte gli toccava andare alle funzioni domenicali. Questo diede slancio a Romoaldo, anche perché ci teneva a non deludere Mara.

Così venne la domenica mattina. Mara si aspettava di vedere Romo intorno alle 9,45; aspettò con pazienza poi, alquanto seccata, perché non lo vide, entrò, salutò gli amici, andò in canonica e, salutati anche il prete e il sacrestano, si diede da fare con le panche e i foglietti della messa, che erano da sistemare dopo la funzione delle 8,30. Faceva tutto non trascurando di guardare in giro ogni tanto, per vedere se Romoaldo fosse arrivato. Ma la funzione iniziò.

In realtà il ragazzo era arrivato pochi istanti prima che iniziasse la messa, ma Diego aveva insistito per rimanere in fondo, tra le ultime file. L'amico non taceva un momento, commentava tutto ridacchiando sottovoce, faceva ogni cosa tranne che stare attento a ciò che accadeva in chiesa. Tacque soltanto quando il prete, nell’omelia, commentò i fatti, successi ad inizio settimana, relativi alla scampanata a suon di musica. Fu un'esternazione molto amara, quasi pesante, sul rispetto del luogo sacro, del sentimento religioso di chi lo frequenta e sulla educazione alla vita che i rispettivi genitori non erano riusciti a far comprendere ai figli; sul valore del convivere civile.

- Spero - disse il prevosto alla fine - che questi ragazzi ricevano le dure conseguenze del loro agire, pari alla loro insensibilità e alla loro inciviltà.

Vi fu silenzio in chiesa. I due ragazzi rimasero immobili. Qualcuno forse li aveva riconosciuti poiché si sentivano osservati, molto osservati. Dopo qualche minuto passò la signora col cesto delle offerte. Sarà stata soltanto una sensazione ma pareva proprio che li fissasse, con occhi che sembrarono penetranti. Tacquero per il resto della messa e non si mossero dalla panca neanche alla fine, facendo finta di leggere i foglietti, nella speranza di evitare i presenti e di filarsela a chiesa svuotata.

- Ah, eccoli qui.

- Mara.

- Sì, potevo così aspettarti.

- Ci sono! E stavo leggendo il foglietto.

- Ho visto, ma avresti potuto cercarmi o farmi un cenno, avrei evitato di guardare per tutto il tempo in giro.

Silenzio.

- Dai che ti presento al Prevosto.

Ancora più silenzio.

-Ah, sta arrivando il sacrestano, comincio a farti conoscere lui.

Profondo silenzio, glaciale.

Era come se in chiesa fosse apparso un cherubino e avesse congelato i due ragazzi, seduta stante, sulla panca. Non sapevano come uscirne, il sacrestano aveva visto benissimo Diego insieme a Gianni quel giorno, mentre gli chiedevano spiegazioni per dare il tempo a Riccardo di cambiare il CD.

La fortuna volle che il sacrestano fu “placcato” da una signora che lo trattenne parecchio tempo, così, nell’attesa che si liberasse, il prete andò via e Diego trovò la scusa che doveva scappare dai suoi che lo aspettavano per andare dai nonni, e se ne andarono.

Il mattino successivo, all’entrata della scuola, Romoaldo scoprì che tra i ragazzi girava il video della scampanata e visti gli altri cercò di avvertirli.

- Avete sentito, raga? Siamo su internet, siamo famosi ... ah ah ah. - Stava già dicendo Gianni agli amici.

- Mitico … siamo grandi, tutti si ricorderanno di noi!

Suonò la campanella d’entrata e la discussione sfumò tra i flussi degli alunni.

In classe c’era già la prof d'italiano. Romoaldo era ammutolito per quella notizia, non ne era contento, aveva paura che la voce giungesse ai suoi. Che li addolorasse, soprattutto la madre. Non commentò euforico come gli altri, e ne aveva tutte le ragioni.

Nel tardo pomeriggio arrivò una telefonata a casa dei ragazzi coinvolti dalla bravata. Era la parrocchia. Fu chiesto gentilmente se la sera successiva i genitori dei ragazzi avrebbero potuto recarsi in canonica per un breve colloquio riguardante i loro figli. Nelle case l’aria divenne bollente.

Dopo un breve e finto sbigottimento, alcuni confessarono subito il probabile motivo della chiamata. Scattarono punizioni esemplari, quasi delle ritorsioni. Tra i genitori ci fu chi parlò più con le mani che con la bocca, pensando che quello che i loro figli non riuscivano a capire con le parole l’avrebbero compreso più efficacemente col dolore. Altri li umiliarono con insulti irripetibili. A Romoaldo toccò la cosa per certi versi peggiore. Dopo aver confessato con parole tristi e un atteggiamento sommesso il padre gli gridò in faccia quanto fosse deluso, gli vomitò addosso che gli altri fratelli erano meglio di lui, che era un ingrato, gli scaricò addosso tutta la rabbia e la vergogna che provava. Il ragazzo provò ad accennare una spiegazione. Nulla, lo fece infuriare di più. In un accesso d’ira, gesticolando, urtò il televisore che rovinò a terra. La rabbia divenne furore, si avvicinò al figlio minaccioso. Fu l’intervento della madre, che vide il marito fuori di sé, a calmarlo il tanto che bastò ad evitare conseguenze peggiori. Fu un trauma per Romo. La lezione l’aveva imparata, ma le parole del padre lo svuotarono della stima che ogni adolescente è bene che abbia.

I ragazzi passarono tutti dei momentacci, ma chi tra loro aveva un carattere “forte e indifferente” in breve ci passò sopra. I genitori dal canto loro, dopo la sgradevole sensazione di vergogna e di collera, cominciarono a chiedersi perché il Parroco intendesse incolpare proprio i loro figli; iniziarono a domandarsi quali prove avesse e quali intenzioni lo muovessero e, soprattutto, come si permetteva di avanzare certe accuse … e via discorrendo; il tutto, senza neanche aver sentito cosa avesse da dire il sacerdote e, soprattutto, con quali propositi.

Il mattino seguente a scuola i ragazzi erano infuriati. Nel corridoio all’intervallo si chiesero chi avesse messo in rete il filmato.

- E’ tuo il telefonino del menga che ha ripreso la scena, Sergio, che cavolo ci hai fatto, a chi l’hai dato, imbecille? - Accusò Gianni tenendo Sergio per la maglietta. Anche gli altri erano infuriati e non difesero l’amico. Aspettavano una risposta. Che arrivò con voce tremante.

- L’ho passato a tutti voi, lo avete voluto tutti il filmato, cosa volete da me.

- Si può sapere chi ha messo di mezzo internet, allora? - Chiese Riccardo.

- Demente, dicci chi è stato, tu lo sai! Se no ti gonfio, sei tu quello fissato con ste cose. - Incalzò Gianni. - tu e la tua idea di vacca di riprendere tutto col telefonino.

Sergio non sapeva più cosa dire e allora dopo le parole seguirono i fatti. Gianni strattonò Sergio con violenza, una, due, tre volte, finché Sergio reagì per difendersi. Era quello che Gianni aspettava per colpire l’amico più volte … finché gli altri li separarono. Sergio era pestato per bene. E agli altri non dispiaceva granché. Sapevano che probabilmente non era stato lui a mettere il video su internet, non si sarebbe mai auto incolpato, ma poco importava, aveva fatto lui il filmato e un responsabile dovevano pur trovarlo.

Visto il trattamento subìto, Sergio andò su tutte le furie e proprio mentre suonava la campanella gridò col fiato che aveva in corpo:

- Bastardi, però ieri mattina ridevate anche voi: “siamo famosi, siamo famosi” e adesso è solo colpa mia … io non so neanche chi l’ha messo quel file in giro, bastardi!

Lasciarono lì Sergio, con le sue botte, a guardarsi la maglietta strappata e i graffi sul petto. Erano troppo presi con le loro punizioni, con i loro problemi.

sabato 10 ottobre 2015

Dei ragazzi della scuola e dell'amore - quinta puntata

prosegue l'avventura dei ragazzi

QUINTA PUNTATA

                   Cap. 3 II secondo anno alle superiori

 Un giorno gli amici si ritrovarono appena terminate le lezioni. 

- Non hai il coraggio di farlo. - Disse Gianni.

- E perché dovrei? - Ribatté Sergio.

- L’idea è questa: siamo un gruppo, amici tenaci e duri, dobbiamo dimostrare che abbiamo le … insomma gli attributi. Così chi vuole essere veramente del gruppo deve superare una prova, diciamo … deve dimostrare di essere un duro.

Le parole di Riccardo convinsero tutti e, nel pomeriggio, man mano che gli amici giungevano in piazzetta venivano messi al corrente della proposta. Gianni, Riccardo, Sergio, Romoaldo, Luigi e Diego erano ormai diventati inseparabili.

- Sì, ma chi decide le prove? - Domandò Sergio un po’ scettico, mentre sorseggiava una coca cola fresca.

- Gli altri! tutti gli altri decidono di volta in volta per quello a cui tocca, e ovviamente lui ci deve, stare altrimenti è fuori.

La proposta di Gianni fu accolta dall’entusiasmo, all’inizio, poi si resero conto che ognuno era in balìa del gruppo.

- Chi inizia? - Chiese Gianni.

- Iniziamo da Romoaldo. - Propose Riccardo.

- Perché proprio io?

- Perché hai un nome del menga. - Disse ridendo.

- Meglio del tuo, e poi era di mio nonno materno, tanti in famiglia lo hanno.

- Sì, tutta la famiglia Addams. - Ne rise Sergio.

- Ma piantala sciancato….

- Dai, dai chi ce la fa a … - Sergio si girò di fretta - … a far suonare le campane della chiesa.

Attimo di smarrimento generale. Nel fondo, tra gli alberi svettava un campanile di fine 18° secolo, che pareva irraggiungibile nel cielo.

- Ma non sono registrate le campane? - Chiese Diego. - Cioè, quando suonano sono incise su CD. No?

- Facciamo suonare il CD, allora. - Disse risoluto Gianni.

Si guardarono negli occhi l’un l’altro. Non tutti erano convinti, forse immaginando la più che probabile reazione di genitori e del prete. Quello era un pomeriggio di fine settembre, l’aria ormai era cambiata e non c’era il caldo opprimente dell’estate.

I ragazzi si attardavano a tornare a casa, decisi a consolidare la loro amicizia, il loro gruppo. Quasi tutti erano in motorino, o erano accompagnati dagli amici. Ma quella proposta non era abbastanza:

- No, ragazzi, non facciamo suonare il CD delle campane, ma un altro, uno nostro. Propose Riccardo.

L’intesa era raggiunta. Sarebbero andati tutti in sagrestia per la bravata. Ci si doveva mettere d’accordo solo sui tempi e sulle modalità, per cui tennero d’occhio per tutto il giorno il campanile e notarono che le campane suonavano davvero soltanto alle 12 e alle 18. - Si farà alle 19 - Era deciso.

Il giorno successivo Romo e Sergio stettero fuori dalla chiesa, Gianni e Diego entrarono finita la messa alle 18,45 dove c’era già Riccardo vicino alla sagrestia per studiare i movimenti del sacrestano. Vide dove era il lettore CD e si tenne pronto ad intervenire appena il sacerdote si fosse allontanato a messa finita. Ma il sacrestano, contrariamente ciò che accadeva di solito, non si allontanò, rimase a fare ordine. Gianni fece cenno a Riccardo che avrebbero pensato loro al “sagrista” e, con la scusa di una informazione sui ceri, diedero il tempo a Riccardo di cambiare il CD.

Come videro uscire Riccardo dalla sagrestia gli altri due salutarono il sacrestano che rimase attonito per la fretta con cui tagliarono il discorso, tanto che si guardò in giro e fece in tempo a notare, tra l’altro, anche Riccardo allontanarsi in tutta fretta. Mancavano pochi minuti alle 19, l’ora della scampanata, e la chiesa si andava svuotando. I sei amici si radunarono proprio in prossimità del campanile. Sergio tirò fuori il telefonino e riprese Riccardo che si improvvisò speaker dell’avvenimento, scimmiottando i giornalisti TV:

Buonasera, siete collegati con Piazza Maggiolini perché il Prevosto ha deciso di protestare contro chi ha espresso lamentele verso le campane che fanno rumore e disturbano la pace della gente tranquilla di questa cittadina laboriosa, protesta portata ai limiti dell’accettabile, a detta di alcuni, per le modalità discutibili: infatti il sacerdote ha deciso che tra un minuto non suoneranno le campane ma……

Ma non fece in tempo a finire che la piazza, le vie, la città furono inondate dal suono distorto delle chitarre degli AC-DC. I ragazzi scoppiarono in una risata clamorosa, in salti, urla e in goffe imitazioni spasmodiche delle chitarre elettriche. Il tutto ripreso dal telefonino ultima generazione di Sergio.

Il suono s'interruppe pochi secondi dopo, grazie al tempestivo intervento del sacrestano che era ancora all’interno della chiesa. Loro però continuarono a gridare a squarciagola e presero i motorini cominciando ad impennare in piazza. Andarono via con l’euforia che ancora gridava loro in gola, con le risate che coprivano anche i loro pochi e non lucidi pensieri, fuggendo sui rumorosi veicoli, ma non prima di essere passati un’ultima volta sul sagrato della chiesa.

Luigi, in particolare, era il più spericolato col motorino e continuava a impennare e a sgommare per le vie del centro. Si calmarono soltanto quando scorsero in lontananza una pattuglia della polizia locale: a quella vista cessò improvvisamente l’adrenalina.

La sera in piazzetta lo raccontarono a tutti e rividero il video fino all’inverosimile, come se avessero osato l’inosabile, come se ognuno di loro si fosse guadagnato la palma del ragazzo più in gamba del momento. Alle ragazze in fondo piacque la bravata, e anche loro continuarono a rivedere il filmato... non dissero nulla in merito, se non il proponimento di essere presenti alla prossima avventura.

Romoaldo non disse nulla a Mara e non si esaltò eccessivamente: sapeva che lei non avrebbe condiviso. Era molto religiosa, assidua frequentatrice della parrocchia, per cui si contenne anche nelle dimostrazioni di soddisfazione. Le stava a fianco accennando appena qualche sorriso se qualcuno degli amici lo avvicinava, poi proseguiva a chiacchierare con lei. La ragazza dal canto suo non condannò apertamente il misfatto, sapeva che sarebbe stato inutile e sorvolò, era troppa l’euforia; si limitò a dire che era tardi e se ne andò a casa. Non fu una bella serata per lei.

La sera successiva, dopo cena, Gianni andò a prendere Martina a casa sua, in motorino.

- Il mio è dal meccanico Gianni, sono a piedi. Mi faccio accompagnare in piazzetta da mia madre.

- No, vieni con me sullo scooter, è qui vicino, ci vuole poco, dai.

- Ok, prendo il casco e arrivo.

Martina uscì poco dopo, aveva il casco in mano e lo fece vedere a Gianni sorridendo. Intanto il ragazzo fuori in strada stava sgommando e frenava continuamente facendola attendere qualche istante prima di farla sedere sul seggiolino.

- L’hai finita finalmente di fare casino!

Era seccata per il comportamento eccessivamente rumoroso di Gianni, anche perché il padre era alquanto infastidito dal baccano e lo aveva detto alla figlia, oltre ad averle fatto le solite raccomandazioni. Il fumo dei copertoni andò via poco dopo, ma l’odore di gomma bruciata rimase per un pò.

- Dai che andiamo, bella!

Non le diede neanche il tempo di allacciarsi il casco che partì a tutta velocità, sfrecciando tra i viottoli del centro e arrivando all’impazzata dagli amici.

- Ragazzi si va al pub irlandese. - Disse a tutti Luigi.

- Fino a Busto piccola? Perché? Stiamo qui come le altre volte. - Propose Riccardo.

- Ho voglia di sfrecciare a tutta velocità, raga, dai, si vola. - Gridava Luigi dando gas a tutta forza al ciclomotore in folle.

- Piantala che ci intossichi tutti, rimba. - Lo apostrofò Riccardo. - Spegni sto coso che decidiamo.

- Sì, andiamo al pub, voglio bere una birretta gelata.

Così iniziarono tutti ad accendere i motorini e Luigi, che non lo aveva mai spento, iniziò una danza sincopata di accelerate e frenate. Diego prese a sgommare. Riccardo diede vita ad una serie d'impennate alquanto pericolose, poiché ogni volta rischiava di fare la conoscenza dell’asfalto. Gianni, che aveva a bordo Martina, si limitò a disegnare cerci sempre più stretti col ciclomotore, rischiando di perdere l’equilibrio.

Il tutto condito da schiamazzi e risate.

Romo rimase a piedi, non aveva ancora il motorino e nessuno lo fece montare. Quello promesso dai genitori tardava ad arrivare e i fratelli maggiori non glielo avevano prestato, non lo facevano quasi mai. Cominciò così spontaneamente un carosello di velocità e giri vorticosi, di impennate e frenate repentine. Insomma cominciavano a dare veramente fastidio agli altri avventori della piazzetta. L’euforia andava a mille, i ragazzi si sentivano padroni dello spiazzo, del loro destino, dell’estate che si chiudeva e la gioia offuscava la ragione … forse troppo.

Nessuno di loro si avvide della volante della polizia locale che da qualche istante li stava osservando e che si avvicinò con calma. Sarebbero stati dolori.

Forse qualcuno aveva chiamato, forse no, sta di fatto che era lì. Un paio fuggirono di istinto, gli altri si fermarono. La volante non si mise alla rincorsa dei fuggitivi, si fermò e gli agenti scesero.

- Ragazzi fateci vedere i documenti dei ciclomotori, per cortesia. - Disse con tono deciso il poliziotto.

Dopo un rapido controllo gli agenti iniziarono a stendere i verbali, con piena soddisfazione dei presenti che intendevano godersi una tranquilla serata di fine estate, magari gustando un gelato. C’erano molti bambini e i giochi coi motorini potevano diventare pericolosi. Il conto fu tragico, furono fermati due ciclomotori e contestate cinque infrazioni. Alcuni ragazzi oltretutto non indossavano il casco. Ora, forse perché la paura era passata, o perché cominciavano a rendersi conto che non avrebbero avuto il motorino per un bel pò, o più semplicemente per timore di dirlo ai rispettivi genitori, tra di loro montò la rabbia e cominciarono a diventare impertinenti con i vigili: la bocca parlò senza cervello.

- Perché le fate solo a noi le multe, e degli altri che sono scappati non ve ne frega niente, vero? - Obiettò il primo dei ragazzi.

- Così tanto di multa? Ma siete fuori di testa? Io chiamo mio padre! Non sapete cosa vi succederà. - Disse un altro.

- Ma pensa li paghiamo noi questi qui! Sono proprio facce toste. - Incalzò qualcuno dalle retrovie.

La fortuna dei ragazzi fu che i due agenti avevano esperienza, agivano con autorevolezza, ma non avevano intenzione di calcare la mano; non diedero peso alle parole dei giovani e passarono sopra a qualche insulto che si udiva qua e là.

- Perché non ci dite per quale motivo non avete inseguito anche gli altri e fate le multe solo a noi. - Ripeté a voce alta Gianni, ormai fuori controllo.

Questa volta il vigile, che stava scrivendo proprio il verbale di sequestro del ciclomotore di Gianni guardò il ragazzo che gli stava proprio a pochi centimetri, e gli disse:

- Pensa che sia stato così difficile leggere le targhe dei ciclomotori dei vostri amici prima che andassero via? - E gli mostrò la mano sul cui palmo erano annotati due numeri di targa. Gianni non parlò più. - Lei non è il figlio del commissario? - Domandò il vigile.

- Sì, sì. - Rispose a denti stretti Gianni.

- Faccia vedere il verbale a suo padre, perché tanto glielo manderemo a casa, così se ha bisogno di spiegazioni gliele daremo noi. Arrivederci.

E se ne andarono.

Il resto della serata fu amara. I ragazzi stettero tutto il tempo a inveire contro i vigili, a domandarsi come dirlo ai genitori, a cercare di ricordarsi i motivi più disparati per fare ricorso ai verbali, comprese fantomatiche conoscenze con comandanti di polizia o avvocati. Il giorno successivo ci sarebbe stata scuola e a loro non andava giù di andarci accompagnati dai genitori.


Erano da poco passate le dieci e Martina volle che Gianni l'accompagnasse a casa a piedi. Era stanca e arrabbiata per l’accaduto. In verità, ce l’aveva soprattutto con Gianni. Non solo l’aveva combinata grossa, il ragazzo non capiva, secondo lei, che non era il caso di prendersela coi vigili, in fondo se l'erano cercata.

Ma passeggiando pian piano si calmò.

- Sono strade poco illuminate e a volte ho paura di camminare da sola. Mi fa piacere che ci sia tu ad accompagnarmi.

- Beh, mi piace stare con te, lo sai.

- Anche a me piaci tu.

I due ragazzi si tenevano per mano. Ogni tanto la luce dei lampioni era più intensa e creava strani giochi di colore con i capelli di Martina. Gianni allora approfittava dei momenti di buio per stringerla e baciarla. In quei frangenti i cuori parlavano l’un l’altro, le mani si stringevano e le labbra cercavano l’amore. Era dolce morire in quell’abbraccio.

Rimasero molto tempo fuori dalla casa di Martina a chiacchierare. La voce di lei era un canto delicato. Lui le carezzava teneramente i capelli mentre parlavano; con le dita sentiva scivolare le ciocche lisce e profumate e con gli occhi cercava di cogliere ogni piccola espressione del viso che, sorpreso, gli piaceva da morire; con la bocca sussurrava dei tocchi delicati sulla pelle, come fossero sentieri da scoprire. Erano in estasi. In verità ogni tanto giocavano col telefonino o si facevano giocosi dispetti. Ma, di quando in quando, tornavano ai silenzi che sussurrano sguardi, tocchi e teneri baci.

- Sai che mi manchi quando non ci sei, Gianni?

- Lo so. - Disse impertinente.

- E come fai a saperlo?

- Perché anche io ti cerco. Siamo attratti l’un l’altra.

- Ci promettiamo eterno amore? tu ci credi?

- Sì, ci credo, e vorrei che il nostro fosse così, Martina, vorrei scriverlo in piazza, sui libri, in tutte le vie …

Non finì la frase, le parole si adagiarono tra le labbra dei giovani innamorati, e scesero al cuore nelle stanze segrete che ognuno conserva geloso.

- Devo andare ora.

- Lo so. Tua madre ha chiamato.

- Mi mandi da lei?

- Ti porto con me, amore.

- Ci verrei, lo sai.

Tra i due ormai l’attrazione era forte e non riuscirono a separarsi quella sera se non dopo che la madre chiamò l’ennesima volta, verso mezzanotte. Si toccarono ancora le mani, nel buio, tra gli alberi del viale che portava alla casa di lei. La notte amplificava i sensi e conduceva i loro pensieri lungo sentieri poche volte esplorati. Ogni cosa in quei momenti pareva parlasse di lei. Prese una sua foto, che teneva nel portafoglio, e la diede a Martina.

- Sarò per sempre tuo Martina. - E la baciò.

sabato 3 ottobre 2015

Dei ragazzi della scuola e dell'amore - quarta puntata

Prosegue il racconto

Quarta puntata

Cap. 2 La furbata

L’estate era inoltrata e si avvicinavano le scuole. Riccardo aveva ricevuto in dono per il suo compleanno un ciclomotore fiammante, e voleva farlo vedere agli amici. Così un pomeriggio di settembre alcuni di loro, che erano a casa di Riccardo, scesero con lui nel garage. Ammirarono il veicolo in ogni particolare, lo accesero più volte, ci fecero dei giri. Aveva un colore grigio metallizzato, con rifiniture che davano sul violaceo, e nel complesso faceva la sua bella figura. Per i ragazzi era quasi un oggetto di culto. Era tra i primi della cerchia di amici ad averne uno, e passarono più di un paio d’ore al suo cospetto, quasi fosse un miracolo. Poi qualcuno di loro notò un uomo vestito da cameriere che, sceso poco prima nei garage, aveva frettolosamente lasciato aperto quello di fronte a Riccardo. Fu un attimo!

I ragazzi si riversarono dentro incuriositi. E non trovarono quello che di solito è riposto in simili locali. Trovarono scaffali e scaffali di caramelle, noccioline, cioccolate in polvere e bibite. Di tutti i tipi. Le mani andavano così veloci che in poco tempo arraffarono il possibile, ma durò pochissimo. Il rumore di una macchina li fece fuggire con addosso chili di chewing gum e di adrenalina.

Ma l’idea ormai li ossessionava: come tornare a mettere le mani su quel bottino. Fecero decine di proposte l’un l’altro, prontamente accettate e subito scartate a favore dell’idea successiva. Alla fine prevalse lo scoraggiamento. Il colpo di fortuna c’era stato e non erano riusciti a sfruttarlo appieno.

Così, con la scusa del motorino di Riccardo andarono per un pò di giorni nel garage, sperando che si ripresentasse l’occasione. In effetti il cameriere tornò ogni tanto ma, quelle volt, non lasciò il garage aperto: probabilmente s'era accorto dell'ammanco.

Nonostante ciò, la fortuna li baciò ancora, accadde di nuovo: per la fretta o per distrazione l’uomo lasciò socchiuso il locale adibito a deposito. Questa volta, però, erano organizzati.

- Alla porta Luigi, pronto a fare il segnale! - Disse Riccardo.

Gli altri entrarono come un ciclone nel golfo marino, buttandosi sulle scorte.

- Non così ragazzi, non facciamo casino e non buttiamo tutto all’aria. Portiamo via solo scatole chiuse e alcuni pezzi delle scatole già aperte, in modo che non appaia subito che c’è stato un furto. È inutile allarmare il cameriere. - Propose Romoaldo.

Ovviamente nessuno ascoltò: troppa foga! Troppa paura. Finché Riccardo disse che Romo aveva ragione e rimisero un pò in ordine, prendendo una gran quantità di merci e nascondendola nel garage di Riccardo.

- Ora dobbiamo trovare un nascondiglio sicuro. - Disse Luigi.

- Ci sono quelle case abbandonate in centro, vicino al calzificio; lì, nelle cantine, possiamo nascondere tutto: è buio pesto e nessuno vi scende mai. - Nessuno obiettò, e ascoltarono le parole di Sergio.

Erano fieri della loro furbata. Con essa si erano riempiti le tasche di noccioline salate, caramelle, snack e quant'altro: e le ostentavano a tutti gli amici, finché il giorno successivo il fratello maggiore di Sergio, notate le quantità di prelibatezze ingurgitate dal fratello, lo fece parlare.

E la vanità aprì bocca! Si inventò una eroica scoperta, dei pericoli esagerati, una fuga quasi da agente segreto e confermò che lui e i suoi amici avevano messo le mani su una quantità enorme di dolciumi. Fino a qui il racconto avvenne pacificamente. Quando gli chiesero di rivelare il luogo del nascondiglio, il fratello e gli amici più grandi tirarono fuori la cattiveria del più forte e, a ritmo di schiaffoni, si fecero condurre a fare man bassa a loro volta, a spese dei ragazzi più piccoli che avevano rischiato.

Sergio non ebbe il coraggio di dirlo agli amici, che lo scoprirono non appena provarono a rifornirsi nuovamente alla cantina della vecchia casa semidiroccata.

La loro gloria terminò così! Ma nessuno degli amici se la prese eccessivamente con Sergio, sapevano che cadere nelle mani dei “più grandi” era dura e cercarono di tornare nel nascondiglio a recuperare quel poco che era rimasto. Briciole.

Mentre tornarono nella loro zona, la 167, Romoaldo vide Mara.

- Ciao ragazzi, a dopo. - Disse salutando frettolosamente.

Capirono subito, appena videro dove era diretto, e proseguirono diritto. Anche Mara per la verità tirò diritto e non gli rivolse la parola, tanto più che era in compagnia di altre ragazze e continuò a conversare con loro come se Romoaldo non esistesse affatto. Solo uno sguardo, come per caso, durante la conversazione animata con le amiche. Neanche un saluto!

A Romo si gelò il sangue. La guardò passo passo finché s'allontanò.

- L’ha fatto apposta - pensò - possibile che non mi abbia visto?

Incredibile quanto l’indifferenza altrui possa uccidere, e nel contempo fortifichi l’autostima di chi la somministra. Raggiunse di nuovo i suoi amici e si consolò in un mutismo sordo, mentre gli altri, cresciuta la rabbia, covavano voglia di vendetta. Di Di quell'intento Luigi il era più deciso:

- Li becchiamo uno a uno, da soli, e li massacriamo di schiaffoni!

- Sì, poi ci cercano uno a uno e ci finiscono a sberle, che idea del menga. - Ribatté qualcuno.

E continuarono così fino all’ora di cena. Alla fine decisero di andare l’indomani a chiedere almeno una parte del bottino, visto che quel ben di cuccagna l’avevano procurato loro.

La sera si ritrovarono alla piazzetta del gelataio ancora un pò rabbiosi, ma alla fine passarono il tempo allegramente tra gavettoni e risate. Così anche Romo.

Il giorno dopo l’incontro con il fratello di Sergio e gli altri grandi:

- Volete parte della merce? E chi se ne frega! - rispose il fratello di Sergio - Ve ne andarvene da soli o vi accompagnamo a calcioni, mezze cartucce?

Questa fu in sintesi la risposta alla richiesta di avere parte della refurtiva.

- E poi abbiamo già divorato tutto, è rimasto poco. - Quidni se ne andarono ridendo e canzonandoli.

Niente da fare! Occorreva rassegnarsi. Si rischiava che dallo scherzo si passasse alle mani. Quello dunque fu un discorso chiuso.

Si avvicinavano i giorni della scuola, la seconda superiore per Romoaldo e i suoi amici. Dopo qualche giorno il poeta chiese a Gianni di accompagnarlo con il motorino a casa di Mara.

- Non posso, sono con Martina.

Allora chiese a Riccardo.

- Non ho i soldi della benzina, e sono in riserva.

Non chiese più! Capì che non volevano aiutarlo. Ci rimase di sasso, ma ci passò sopra: comunque era deciso a incontrare Mara, per parlarle e spiegarsi. Andò in classe sua, era il primo giorno di lezione. La scusa era il prof di matematica che avevano in comune e i compiti delle vacanze, gli “obiettivi” come li chiamavano i prof.

Le si avvicinò camminando lentamente, con calma, tenendo i libri in mano e con altrettanta pacatezza le rivolse la parola.

- Ciao Mara.

- Ah, ciao Romo. - Rispose accennando ad andarsene.

- Hai trovato le soluzioni alle espressioni che ci ha dato per le vacanze il prof? Ho saputo che ha assegnato le stesse a tutte le sue future seconde. Io di una ho un dubbio su un passaggio … avrebbe fatto meglio a darci il risultato il prof, così eravamo sicuri del lavoro.

- Ma lo fa apposta, vuole che ragioniamo. Che dubbio hai? - Rispose con fare un pò paternalistico.

Riuscì a farla parlare, e soprattutto a farla parlare con lui. Il volto era serio e concentrato ma il cuore gridava, gridava tra colori brillanti del cielo settembrino che gli dipinsero l’anima. Gli occhi fissavano il quaderno aperto, ma vedevano solo il viso di lei, immaginandolo sorridente e sereno.

Poi tutto finì ... non tutto, veramente: si erano dati appuntamento per ripassare con altri compagni a casa di Romoaldo, nel pomeriggio. Arrivò poco prima dell’ora stabilita per il ripasso una telefonata da Mara:

- Gli altri non … vengono, vogliono fare un giro in piazzetta e io vado con loro, facciamo un’altra volta per il ripasso, Romo?

Pochi secondi per pensare, le idee sorgevano a metà scontrandosi tra loro e nessuna gli rimase in testa. Accennò solo due parole:

No … aspetta….

Un attimo di silenzio: temeva avesse già messo giù e che in realtà gli amici, la piazzetta, fossero soltanto una scusa per liberarsi di lui. Odiò quel silenzio interminabile.

- Sono qui, dimmi ... Romo?

- Ecco, contavo di andarci anche io in piazzetta, in effetti è una bella giornata e me la voglio godere, vengo con voi!

- Bene … ci vediamo lì allora. - Disse con tono frettoloso.

- Sì, - rispose con calma Romo. - Ma io vorrei parlarti, sai vorrei spiegare quello che hai sentito da Andrea. Io non ho preso un soldo. - Disse concitato. - Mi hanno costretto, lo hanno voluto loro e mi ha anche beccato il prof, che stupido sono.

- Si ho capito, ieri a scuola ho incontrato Gianni e Martina e me lo hanno detto!

Continuarono così per qualche minuto e dopo una mezz'oretta si ritrovarono in piazzetta con gli amici.

- Non so perché ti parlo Romo, devi proprio piacermi se ci vediamo dopo quello che ho saputo di te, dei bigliettini a scuola intendo. - Quelle semplici parole dette col sorriso gli fecero sussultare il cuore.

Romo non rispose in merito ai bigliettini:

- Allora ti piaccio ... e parecchio forse. Meno male; vivo anch'io se la luce dei tuoi occhi si posa su di me.

- Dai Romo, sei sempre pronto a portare il discorso dove vuoi tu.

- Tu sei il mio discorso, il mio intelletto e il mio cuore.

- Se sono quello che hai detto vuol dire che ti piaccio anche io, allora.

- Sì Mara, mi piaci; mi piace ogni cosa di te, tutto ciò che sei.

- Tutto? … - e scherzando gli mostrò le mani – ti piacciono?

Le raggiunse con un tocco che appena le sfiorò.

- Ad esempio le mani. Sono amicizia e amore, delicatezza e forza. Esse possono amare o odiare, sono dolci al tocco e abili nell’arte, sanno trasmettere un caldo abbraccio al cuore. A volte si congiungono al cielo, non in preghiera, esse sono preghiera. A volte assumono forma di petali, delicate e profumate aurore di bellezza. E io … le tocco, come dono insperato e ne bacio il palmo come fosse una piccola volta del cielo. Se le piccole mani fanno tutto ciò, profondità e ampiezza, cosa riserva il firmamento a noi mortali?

Ma si udì un urlo. - Ragazzi chi vuole un gelato? Hanno sbagliato gusto e a me non piace l’amarena. - Interruppe Riccardo mentre usciva dalla gelateria.

Faceva veramente caldo e quel cono gelato era invitante. Cominciava a grondare ai lati di panna fresca e gocciole di amarena.

- Lo vuoi Mara?

- Sì, grazie.

- Dai qua Riccardo, lo prendiamo noi.

- Ah ah ah lo prendiamo noi … noi noi noi …

Riccardo cominciò a girovoltare andando verso i due innamorati, canticchiando con un tono scherzoso. I due ragazzi erano amici davvero e Riccardo voleva prenderlo in giro facendo volteggiare il gelato.

- Si scioglie e poi te lo mangi tu, Ricky! - apostrofò l'amico che si attardava.

- Ok Romo eccoti il gelato… - Con un gesto repentino fece finta di inciampare, ma il cono cadde davvero sui piedi di Romo.

- Adesso sei contento! Vado a prenderne un altro. - disse furioso Romoaldo.

Riccardo andò via ridendo, corse verso gli amici. Il gelato rimase a terra e il nostro amico si alzò per andare in gelateria.

- Non fa niente Romo, stai qui, parliamo …

E nel primo giorno di scuola, passò il pomeriggio con lei.