sabato 24 ottobre 2015

Dei ragazzi della scuola e dell'amore - settima puntata

seguiamo ancora i nostri ragazzi


SETTIMA PUNTATA

Venne l’ora prima della cena. Il padre di Romoaldo tornò a casa dopo il lavoro, salutò tutti e il nostro amico lo salutò con educazione, dopodiché si chiuse in un mutismo colpevole, di quei silenzi che soffocano l’anima. Andò nel suo letto e fece finta di studiare, mentre dentro moriva di vergogna. La madre lo chiamò per cena e, quando vide che si era addormentato, lo svegliò dolcemente, come solo una madre sa fare.

La cena passò velocemente e Romoaldo fece per andare a dormire di nuovo quando il padre lo chiamò. Era quasi l’ora che andasse in parrocchia. Romoaldo capì che voleva parlargli di questo e lo affrontò con la speranza che qualcosa si chiarisse.

Il padre si chiuse in camera con lui. Lo guardò per qualche istante. Poi tese la mano verso di lui.

- L’hai fatta grossa Aldo - così abbreviava il nome del figlio - ci hai deluso e noi ci siamo arrabbiati molto con te. E’ giusto che tu sia punito.

In quel momento entrò la madre. Non disse niente, ascoltò il marito.

- Ma io non devo desiderare di picchiare mio figlio, non devo arrivare a quel punto … ieri per qualche istante avrei voluto … ho sbagliato … errore mio, non deve capitarmi più … ma tu limitati Aldo, non so come dirtelo, non portarmi a desiderare cose del genere, che non mi fanno onore.

Quindi lo abbracciò forte. Gli carezzò la testa e i capelli. Romoaldo cominciò a singhiozzare tenendosi stretto a suo padre. Scoppiò in un pianto così profondo e liberatorio che il padre non fece nulla, ascoltò le parole che gli schiusero il cuore, e che chiedevano scusa. La madre disse soltanto:

- Stiamo lavorando sodo per voi figli. Sappiamo che non ci deluderete. Vediamo che ti impegni. Per cui ascolta tuo padre, ascoltaci, e ti andrà bene nella vita, figlio mio.

Finì così. Romoaldo questa volta capì cosa i genitori provavano per lui. Ne ebbe la conferma. Ora era rinfrancato e si propose di non seguire mai più gli amici in faccende contorte.

In canonica il Prevosto tardò ad arrivare e i genitori dei ragazzi cominciarono a spazientirsi. Con loro c’era solo il sacrestano che era rimasto per accoglierli e non li degnò di uno sguardo. Continuò a sbrigare le sue faccende, quasi come se non ci fossero.

Cominciarono a guardarsi intorno. Nessuno di loro si conosceva se non di vista. Ognuno pensava, sperava, che il proprio figlio fosse stato trascinato nella bravata dagli altri amici, anzi ne erano convinti. Non si rivolsero la parola l’un l’altro come per mantenere le distanze dalle famiglie di chi coinvolgeva il proprio figlio in guai seri.

Arrivò il Prevosto. Disse poche parole, con calma, come si addice ad un prelato:

- Signori buona sera. Scusate il ritardo.

E continuò dicendo cosa era successo in occasione della scampanata. La prima domanda che fece uno dei genitori fu quella che mandò su tutte le furie il sacerdote:

- Come fa a dire che è stato mio figlio a fare queste cose?

Maledizione, pensò in un attimo il prelato, non si preoccupano dei ragazzi, di come crescono, del loro futuro, ma della loro reputazione di genitori. Ma il prete si controllò in un momento e la rabbia scemò. Da un lato era comprensibile che chiedessero questo, forse volevano accertare la verità e, d’altro canto, anche accertare i fatti era forse una sorta di cura per i propri figli.

- C’è un filmato - rispose Don Vittorio seccato - che qualcuno ha caricato in internet, signori … se pensate che non siano stati i vostri figli lo consegnerò ai carabinieri con contestuale denuncia contro ignoti, così sapranno dirci loro chi sono i responsabili. Che ne dite?

La risposta venne d’istinto dagli adulti.

- No, ci scusi, siamo tesi anche noi, Don. Ha fatto bene a chiamarci qui e a metterci al corrente. Anche se, penso, i nostri ragazzi, tutti spero, ci hanno già detto quanto è successo e sono stati messi in punizione ... comunque … ci suggerisca qualche cosa lei, ci dia qualche consiglio per i nostri ragazzi.

Queste parole addolcirono gli animi. Il prete precisò che era sua convinzione che i loro figli non fossero cattivi ragazzi, ma che c’era il serio pericolo che lo diventassero. Avevano la “pazzia dei giovani”, secondo lui, e loro dovevano aiutarli; magari con una punizione severa affinché comprendessero quali fossero i loro limiti, ma non con rabbia, spiegò, mai con rabbia. E così fu. Ad ognuno la propria punizione, con la benedizione del prete.

Don Vittorio era persona schietta e decisa. Il più delle volte, se riteneva che fosse il caso, dopo una parentesi diplomatica, diceva diritto in faccia quello che pensava. Qualcuno forse lo detestava per il suo modo di essere, ma, per i suoi ragazzi, per tutti i bambini, si sarebbe fatto in quattro. Rivelava per essi una sensibilità straordinaria.

Passarono parecchi giorni prima che gli amici potessero riunirsi di nuovo nella piazzetta.

Arrivò novembre e qualche pioggia. Era da un pò che Gianni insisteva per avere qualche spunto poetico da Romoaldo per una nuova ragazza.

- Ma non ti vedi più con Martina?

- Sì, non ti preoccupare, voglio farla solo ingelosire.

- Mo' ci credo Gianni, secondo te?

Romoaldo tirò a lungo fino a che Gianni se la prese a male. Fu costretto praticamente a scrivere al momento, e lo detestava quando faceva così.

Martina passava molte ore in palestra a fare esercizi di ritmica e alcuni sabati era impegnata nelle gare competitive, dove non raramente vinceva. Era molto dotata e si impegnava tenacemente. Era tra le prime ed arrivare in palestra e non trascurava di perfezionare ogni movimento, ogni esercizio. Era la leader del gruppo, quasi un modello di femminilità e gusto. Non era particolarmente vanitosa, forse perché non ne aveva bisogno, anzi spesso si immedesimava nelle amiche e se poteva le aiutava quando avevano un problema. Le aiutava, ma come farebbe una ragazza che è conscia delle proprie potenzialità e che potrebbe stare sul piedistallo ogni quando vorrebbe; in qualsiasi momento.

Un sabato pomeriggio Martina suonò il campanello della casa di Romoaldo. Rispose proprio lui e rimase sorpreso.

- Scendi per favore Romo!?

Ci mise un secondo. Nel frattempo pensò fosse successo qualcosa agli amici. Il tono di Martina era preoccupante. Ma no, - pensò, - se no mi avrebbero chiamato al telefonino.

- Ciao Martina, dimmi, è successo qualcosa?

- Ciao, ho bisogno del tuo aiuto … con Gianni … devi darmi una mano.

- Che è successo a Gianni?

- Io ho bisogno di aiuto, Romo … non lui.

Non aveva capito al volo, la guardò come si guarda un film muto, cercando di scoprire dalle espressioni quello che ancora non si era compreso dalle parole.

- Dimmi … sono tuo amico … sono tutto orecchi.

- Ecco, sei mio amico … ma Gianni è un deficiente! Ti ha chiesto di aiutarlo negli ultimi giorni, vero? - Romoaldo sgranò gli occhi mentre lei finiva di parlare. - Tipo che ha adocchiato una ragazza e voleva la tua complicità per conoscerla? Vero?

- No ... cioè, mi detto che voleva farti ingelosire e mi ha confidato che ...

Romoaldo ci era cascato! Le ragazze ci sanno fare con le parole, soprattutto quando usano un particolare tono della voce, a cui in genere i ragazzi sono sensibili, e che la natura ha dotato di raffinata dolcezza. I ragazzi, il più delle volte, non sanno reagire a tale fascino.

- Lo sapevo, lo sapevo … è un bastardo, lo ammazzo, anzi la ammazzo, anzi ammazzo tutti e due. Devi aiutarmi, lo dobbiamo seguire, devo scoprire se è vero. Dammi una mano. Gliele voglio dire in faccia a quel disgraziato che non è altro.

Romo già si vedeva la faccia di Gianni infuriata, la reazione verso Martina, e soprattutto verso di lui. L’istinto di sopravvivenza prevalse e pensò alle parole da dire.

- Ascolta, io ti voglio aiutare, ma se per caso ci scopre Gianni, a te lo rinfaccerà per sempre, a me invece la faccia la spacca. Lasciamo stare, affrontalo e diglielo. Se hai dei dubbi è la cosa migliore.

- No, voglio esserne sicura prima, poi lo mollo quel defi. Per sempre! E poi le mie amiche me lo hanno già detto che gira intorno a una di prima C.

- Allora se lo sai, vai e diglielo.

- Lo voglio beccare sul fatto. Non voglio che ci siano dubbi se devo mollarlo.

- E se ti scopre lui e si accorge che lo pedinavi, prima che tu lo sorprendi? Che figura ci fai?

- Romo non difendere il tuo amico … lo so che ci tieni. Ma se tieni anche a me come tieni a lui, aiutami.

- Non lo difendo, se lo ha fatto è un pistola! Ma io cosa ci posso fare?

Martina si calmò.

- Lo so che all’inizio sei stato tu a ispirargli alcune delle cose che mi hanno fatto innamorare, Romo. Me lo ha confessato lui, serenamente. Mi ha detto che tu sapevi trovare le parole che lui sentiva dentro, anche perché lui non è tipo di parole, ecco tutto. Per cui so bene chi è Gianni. Ma io voglio essere sicura del suo amore, voglio sapere se è vero che sente quelle cose per me. Come hai aiutato lui ora aiuta me, Romo!

Romo si rifiutò. Forse non solo per paura; aveva rispetto di Gianni.

La determinazione di non partecipare ad un gesto basso, dettato solo dalla rabbia, lo persuase a dire di no. Capiva lo stato d’animo di Martina, ma rifiutò fino a che lei se ne andò senza salutarlo, voltando le spalle seccamente. Fu umiliante.

Più tardi Romo andò in piazzetta. C’erano tutti. Mancava soltanto Sergio che dalla litigata per la scampanata non era più venuto. Anche in classe teneva le distanze con loro. Romoaldo era giù di tono, molto giù. Non si confidò con gli amici, erano su di giri per qualche birra e avrebbero buttato tutto sul ridere.

- Dai fatti una birretta - disse per risollevarlo Riccardo - Io e Luigi siamo alla terza … mi pare … tu vienici dietro.

Erano partiti. L’alcool cominciava a portarli via con sé, tra fumi ovattati senza colore. Romoaldo ordinò una birra, ma si limitò a quella. Aveva tutte le intenzioni di mantenere la parola data ai genitori. Gianni giocherellava col telefonino quando gli arrivò uno squillo e si allontanò di fretta, ma gli altri fecero in tempo a sentire la voce di una ragazza. Finita la breve conversazione prese lo scooter e se ne andò senza salutare. Poco dopo cominciò a piovere e i ragazzi lasciarono la piazzetta. Riccardo e Luigi non erano in grado di guidare i ciclomotori, ma nessuno degli amici disse nulla. Passò qualche ora quando a Romoaldo arrivò una telefonata da Gianni. Non aveva il solito tono, quasi piangeva: Luigi aveva avuto un incidente col motorino, era all’ospedale di Legnano; era grave. Tutti gli amici stavano andando lì e non sapevano in che condizioni fosse.

Romoaldo si fece portare dal padre al pronto soccorso. Trovò silenzio, una sala d’attesa senza sospiri. Alcuni sembravano guardare persi nell’aria, tra pensieri che nessuno osava narrare. Mara andò verso di lui, lo accolse con un tiepido sorriso e il volto pieno di lacrime che cercò di asciugare prima di dargli un bacio. Pian piano gli amici lo misero al corrente dei fatti. Luigi aveva perso il controllo del veicolo durante una corsa forsennata lungo la statale del Sempione, ed era caduto improvvisamente andando a finire nella carreggiata opposta. Un veicolo che sopraggiungeva era andato fuori strada per evitarlo e il conducente era anch’egli ricoverato. Fu la prima volta che quei ragazzi videro il dolore in faccia, reale, freddo e meschino, toccare uno della loro età. La madre di Luigi era pallida per il pianto che le smorzava la gola; ancora si vedeva la sofferenza nei suoi occhi quando, senza pensare ad altro, guardava con un rapido movimento degli occhi i ragazzi accorsi. Pareva respirare a fatica tenendosi stretta al marito. Luigi era ancora sotto i ferri e i medici non dicevano nulla. Ad ogni camice verde che passava tutti facevano drappello per sapere qualcosa, ma la risposta era ormai un rituale invito alla pazienza e alla speranza.

Passò qualche minuto e arrivarono gli agenti della polizia locale per sincerarsi delle condizioni del ragazzo e per parlare con i genitori. Ovunque era dolore, ogni attimo, ogni respiro, ogni sguardo.

Riccardo era con Luigi quando ebbe l’incidente. D’istinto aveva messo il suo scooter di traverso sulla carreggiata per riparare l’amico, con le luci accese, in modo che i conducenti degli altri veicoli non lo investissero. I poliziotti ascoltarono anche lui. Era molto spaventato, ma aveva mantenuto il sangue freddo in quella drammatica circostanza.

Finirono il lavoro in fretta, fu come una semplice pratica che passa sopra una scrivania. Uno dei due poliziotti neanche era sceso dal veicolo, dava ordini al collega che scriveva il rapporto e telefonava continuamente, ridendo di chissà quale cosa.

Il tempo passava e pian piano gli amici tornarono a casa, tranne Riccardo; volle stare con l’amico. Luigi uscì dalla sala operatoria intorno alle 22. Non era in pericolo di vita ma c’erano state complicazioni. I medici controllarono ogni ora le sue condizioni, per tutta la notte, tranquillizzando la madre.

Il mattino seguente, alle 10 della domenica, più o meno tutti gli amici giunsero all’ospedale. C’era anche Sergio. Romoaldo lo aveva avvisato, e non era stato l’unico. Luigi dormiva ancora. Era sfinito ed era sotto l’effetto dei sedativi. Il viso era tumefatto e respirava a fatica. Aveva grossi lividi e estese abrasioni sul corpo, almeno per quello che si poteva vedere. La madre non gli lasciava la mano un solo istante, seduta di fianco, con la notte addosso e il pianto che ormai non aveva più la forza di uscire. Continuava a carezzarlo e a parlargli sottovoce, come se non volesse svegliarlo. Il padre stette tutto il tempo senza parole, era il loro unico figlio. I ragazzi si tenevano a distanza, quasi per rispetto. Parlavano sottovoce. La madre fece loro un cenno di saluto e tornò a guardare il figlio. Non si era mai allontanata da lui, ma quando vide arrivare Riccardo, che era venuto poco dopo gli altri, si alzò. Lasciò il figlio e lo abbracciò forte. Tra le lacrime, che le tornarono prepotenti, ringraziò l’amico di suo figlio, era convinta che gli avesse salvato la vita facendogli scudo nel buio della strada. Gli amici allora si strinsero intorno a Luigi e ai suoi genitori. Ci furono lacrime su tutti i volti, incoraggiamenti e sorrisi: il dolore pareva passato per un istante, o almeno nascosto nel fondo dell’io, come se fosse tornato nel buio che sta dietro ogni cuore.

Per tutta la settimana a scuola l’argomento degli amici fu Luigi, le visite all’ospedale e, perché no, anche il lavoro sui libri. La frase che risuonava maggiormente tra le classi era il dubbio che nella vita non servissero tutte quelle nozioni astratte sulla storia, le lingue morte e le opere passate, che richiedevano disumani sforzi per apprenderle.

I ragazzi vedevano assottigliarsi le ore di luce e, in prospettiva, avvicinarsi l’inverno. Tra gli amici c’era Sergio, che ormai era tornato a frequentare il gruppo. Non ci furono grandi chiarimenti tra lui e Gianni. Cominciarono semplicemente a parlare delle cose di ogni giorno, e si accettarono come sanno fare due amici; sapendo che, in tutta onestà, la colpa non era tutta dell’altro. Di giorno in giorno giungevano notizie che Luigi stava migliorando pian piano e si diffuse un certo ottimismo. 


Arrivò sabato sera. Romoaldo assisteva in oratorio a una rappresentazione teatrale dei giovani parrocchiani. Tra loro c’era Mara. Impersonava la ragazza di Cirifischio in “State buoni se potete” e lui ne andava fiero. Lei indossava con leggerezza gli abiti cuciti da mani non troppo esperte, ma di fine tessuto, quasi fosse un lembo di cielo adagiato sulla soffice pelle olivastra. Osservava ogni movimento, pesava ogni parola, ogni cadenza proferita dalla ragazza che amava. Lei assunse movenze che pareva sgorgassero dalle pagine di Proust. La stessa raffinata atmosfera di profondo senso estetico. Da sola riempiva il palcoscenico, recitava con la voce, con lo sguardo e coi gesti. Riusciva a rendere la purezza del personaggio sebbene si trattasse di una reietta della società d’allora. Non era solo un’attrice: era davvero a Roma nel ‘500.

Romoaldo rimase incantato dalla capacità di organizzare uno spettacolo quasi dal nulla. Dalla sola volontà di portare il messaggio del genuino cristianesimo, quello che tutti sanno che potrebbe esistere anche nel proprio cuore. Il suo animo poetico ne fu colpito. Decise di ascoltare Mara e di cominciare a frequentare l’oratorio della cittadina.

Finita la recita attese con impazienza che lei uscisse dai camerini. Anche se alcune locuzioni che sentì dagli addetti ai lavori frantumarono il magico mondo creato sul palco, rimase nei suoi occhi l’immagine di quanto di bello può essere fatto dall’uomo. E così, vedutala, l'abbracciò tra un delicato sospiro ed un tenero bacio sul viso. La casa di Mara non era lontana e, invece di farsi accompagnare dai genitori che l'avevano attesa, preferì passeggiare con lui. Ci fu un lungo silenzio tra i due. Sentivano soltanto il tocco della mano, palmo a palmo, e l’aria quasi fredda che incontravano di quando in quando sul viso. Il silenzio accompagnava i loro pensieri e le poche parole fino ad allora dette.

- Tu credi in Dio? Intendo dire veramente. - Chiese Mara.

- Io sento che qualcosa esiste, qualcuno sopra all’uomo …

- Sei felice? - Chiese ancora interrompendolo.

- Qualche volta. - Rispose.

- Come qualche volta? O sei felice o non lo sei.

- Io penso che la felicità ognuno debba costruirla da sé. Ognuno di noi suppongo abbia la capacità di essere felice; se qualche volta non lo sei, dipende da te, dalle tue scelte. Oppure dalla ostilità degli altri … se non sei felice, io penso, devi fare qualcosa per esserlo, se solo ti è possibile.

- Ma è troppo semplice così. È riduttivo.

- Sarà pure semplice come dici, ma se vuoi essere felice devi fare tu qualcosa. A volte il fare è accontentarsi. Altre volte devi darti da fare davvero. Leonardo sosteneva che il Creatore ha dato ogni bene all’uomo al prezzo dello sforzo. Se credo in Dio? Sì, credo in Dio, per il solo fatto che abbiamo la possibilità di essere felici. Quindi sì, ci deve essere Dio.

Lei si fermò e lo abbracciò. Si tenne stretta a lui fino a che cominciò a sentire il calore del suo corpo.

- Sto bene così. - Gli disse.

- Non hai freddo ora.

- Sto bene con te, Romo.

- Romoaldo, dillo tutto il mio nome, tu lo rendi bello.

- No, è più bello Romo.

- Ma tu dillo comunque. Tu rendi piacevole ogni cosa. Il suono della tua voce tramuta ogni sillaba in un canto.

- Tu mi vedi così - lo interruppe - Mi vuoi bene e allora mi idealizzi.

- Non so se sia vero quello che dici. Ma se il cuor mio sente la dolcezza quando le tue labbra proferiscono parola, allora m'inganna, ove non fosse vero. Oh ingannami ancora cuore mio villano, come la luna inganna gli occhi miei vestendoti ora, davanti a me, della seta che colora il cielo, e la luce sua senza calore scaldi il mio pensiero come solo l’amore sa scaldare. Qual poca cosa sono se solo l’inganno sa parlarmi di te, amore mio.

- Sono io il tuo amore allora? - Chiese lei baciandolo con leggero tocco di labbra sulle sue.

- Dimmelo tu, se il mio cuore m'inganna allora parli il tuo che sa trovare le parole e suggerirle al mio.

- Allora l’amore tuo è un inganno, un artificio del tuo cuore? - chiese scherzando.

La carezzò in viso. Sospirò appena e disse:

- Oh, non essere severa col mio cuore. Se egli sbaglia quando ti vedo, la colpa è mia che gli occhi non chiudo al tuo splendore, e lui, attonito, non sa qual sia realtà o incanto.

Sorrise, sicuramente compiaciuta, stordita dalle parole che parevano dettate dall'istinto, nell’attimo esatto in cui venivano proferite. Mara aveva capelli castani e occhi di identico colore. La pelle aveva un lieve colorito bruno, il naso e la bocca, gentili. Era nel complesso di bell’aspetto ed era dotata di una particolare grazia nei gesti e nella parola.

Quella notte a lei parve ferma, immobile, in attesa del palpito d’ali su cui ogni pensiero di soffice suono all’anima parla.

- Hai freddo? - Ruppe il silenzio Romoaldo.

- Sì, ancora.

Mentre si abbracciavano si accese la luce di una finestra della casa di Mara. Insomma era ora di rientrare. I due si diedero ancora un bacio, un ultimo bacio gentile, che divenne pian piano, tra loro, una dolce passione, che sa rendere tenera e piena una fredda sera d’autunno.

- Ciao Leonetta, allora. - Sorrise.

- Ciao … Romoaldo. - E gli strinse un’ultima volta la mano per salutarlo e andò a casa.

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